Oggi non è lunedì, e questo articolo non vi presenterà un personaggio, come di consueto, ma oggi è il 27 gennaio, la giornata della memoria, la giornata in cui si ricordano le vittime dell’ Olocausto. La mia penna non poteva esimersi dallo scrivere qualcosa, perchè questa è una giornata che sento più in me di altre, è una giornata dove provo vergogna per il genere umano di cui faccio parte ed è anche la giornata dove ricordo una storia che, da sempre, fa parte della mia famiglia.
La storia che vi voglio raccontare in seguito è vera, vera e vissuta, e la storia che ho sentito molte volte raccontare da mio nonno, un uomo che ha accompagnato la mia vita e di cui vado fiera, una storia che mi faceva spesso vedere le sue lacrime e che ha lasciato in lui una cicatrice che, credo, gli sia rimasta nel cuore fino alla fine dei suoi giorni.
L’ho scritta in prima persona, come la sentivo raccontare da lui, perchè vorrei portarvi in quel tempo, in quella paura, in quella vita di partigiani dura e, a volte, quasi insostenibile. Nessuno potrà mai sentire cosa davvero hanno provato i protagonisti di questa vicenda, ma vorrei che tu, lettore interessato, e oggi più che mai, non distratto, la sentissi e non solo la leggessi!
Ho avuto occasione di conoscere uno dei primi Ebrei in momenti particolarmente difficili. Era la prima quindicina del Settembre del 1943, scendevo giù da Sant’Antonio Aradolo, verso Borgo San Dalmazzo e nelle vicinanze della Chiesa, di quella frazione, incontrai un uomo, non più giovane, era stanco e smarrito, si vedeva dal suo volto che era in preda alla disperazione e non sapeva nè cosa fare nè dove andare. Gli chiesi se era un Ebreo, ma non capiva la mia lingua, così glielo domandai in francese e, con un certo timore, mi rispose affermativamente. Aveva paura di me, così cercai di tranquillizzarlo, spiegandogli che in quella zona non c’erano nè tedeschi nè fascisti. Tornai sulla mia strada e qualcuno lo accompagnò presso la nostra formazione. In seguito scoprii che era un medico e capii la sua disperazione: sua moglie e le sue due bambine erano finite in mano dei tedeschi, ingenuamente aveva pensato che, da uomo libero, avrebbe potuto, in qualche modo, liberare la sua famiglia, ma presto constatò che non era così. Diventammo amici e restò con noi per parecchio tempo. In quel periodo, numerosi Ebrei, braccati dai nazifascisti, cercavano rifugio nella nostra zona, in montagna: erano stanchi, affamati, impauriti e disperati. Molti cittadini di Borgo San Dalmazzo cercavano di aiutarli dando loro, per quanto possibile, viveri e vestiario. Iniziava a fare freddo e non erano preparati a quel clima. Per alcuni mesi, la carne dei muli catturati, sfamò loro e noi, ma poi, non potemmo più offrire molte cose al di fuori di ospitalità e protezione. Putroppo il periodo in cui la nostra presenza li rendeva al sicuro, non durò molto. Molti di loro, per fortuna, aiutati dal Vicario Don Viale e da Don Brondello, riuscirono a salvarsi trovando rifugi più sicuri, mentre, quelli che rimasero nella nostra zona, dovettero seguire le nostre vicende, in quanto anche nella sede, la sicurezza non poteva più essere garantita. Alcuni rimasero con noi fino all’autunno del 1944 e solo uno rimase fino al Febbraio del 1945, venne poi ucciso in un’imboscata dalle Brigate Nere di guardia a Borgo San Dalmazzo.
Era il dicembre del 1943, sapevo che vi erano molti ebrei rinchiusi nel campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo, era la seconda fase di quel maledetto campo che era stato riaperto per fare da prigione a tutti gli Ebrei catturati nella provincia ed i carcerieri erano italiani, per l’esattezza repubblichini, alcuni anche di mia conoscenza. C’erano 26 persone in quel lager, per la maggior parte donne e bambini. Il 12 gennaio 1944, in serata, fummo informati che il giorno successivo tutti gli ebrei del campo sarebbero stati deportati. Sapevamo che salire su quel treno voleva dire non fare più ritorno ma non sapevamo la verità, non eravamo al corrente di cosa realmentè succedesse a quelle povere anime. Fu durante una conversazione, nata a seguito della notizia della deportazione, che il Dott. Lorbe, il primo ebreo che avevo incontrato sulle montagne e ormai caro amico ,si avvicinò a me supplicandomi di scendere a valle e di provare a salvare almeno la sua bambina più grande, che all’epoca aveva circa cinque o sei anni. La sua famiglia non era nel campo, ma presso la Casa Don Roaschio, a quell’epoca ospedale. Non so se qualcuno di voi ha mai visto gli occhi di un uomo che supplica. Avevo davanti a me un individuo distrutto, devastato dal rimorso di essersi salvato abbandonando moglie e figlie ad un destino crudele. In qualche modo voleva rimediare al suo errore e cercava in me quella possibilità. Sentii sulle mie spalle il peso di una responsabilità enorme, ma come potevo esimermi da quella richiesta? Davanti a me c’era un uomo che voleva sua figlia.
Il giorno seguente scesi a Borgo San Dalmazzo. Arrivai appena in tempo per vedere la colonna che dall’ospedale transitava verso la piazza della parrocchia. Non mi fu possibile riuscire ad avvisare la mamma, i tempi erano stati troppo brevi. Ero armato e deciso a compiere la mia missione. Mi avvicinai alla colonna, riconobbi la piccola, la presi e la nascosi dietro a due persone, il Dott. Rolla e il Segretario Bottasso, entrambi intuirono le mie intenzioni, fu una questione di sguardi, non si mossero e restando immobili la nascosero per tutto il tempo possibile. Putroppo, la mamma, non avvisata in precedenza, si accorse di avere perso la figlia ed iniziò a cercarla, chiamandola ad alta voce. Visto il trambusto, la colonna si fermò. Un militare della scorta tornò indietro per capire cosa stesse succedendo. Non era un tedesco ma un italiano e precisamente un ex vigile urbano di Borgo San Dalmazzo, per me un volto conosciuto. Un tempo era uno di noi! Me lo trovai davanti, mille pensieri mi invasero la testa, sarebbe stato facile sparare un colpo ed eliminarlo, ma dovevo tenere conto delle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto causare. Attimi di tensione, un incrocio di sguardi, fui costretto a lasciar andare la bambina che corse da sua madre. L’unica cosa che mi diede la forza di farlo fu il pensiero anzi la certezza, che sicuramente, essendo così piccola, sarebbe stata salva e nessuno le avrebbe mai fatto del male. Scoprii in seguito che non fu così, la cattiveria tedesca non ha avuto limiti, non vi è stata differenza tra adulti o bambini, tutti erano diretti verso un unico destino: morte certa! Avrei voluto saperlo prima, avrei voluto essere a conoscenza che quella bambina non sarebbe sopravvissuta, sarei sceso con altri compagni, e con le armi avrei liberato tutte quelle povere anime destinate al peggio, ma in quel momento, il peso di una rappresaglia mi bloccò, come anche l’inconsapevolezza di cosa avrebbe riservato il destino a quella povera gente, colpevole solo di essere ebrea! Non l’avevo salvata! Ancora in me ci sono le sue manine che si allontanano dalle mie, sento ancora il suo calore, quelle dita sottili che si staccano dal mio palmo, la vedo correre verso la madre con quel viso da bambina che felice torna tra le braccia del genitore, inconsapevole di quale sarà il suo destino.
Il ritorno verso la base fu per me un supplizio, ero carico di pensieri, sconfitto, amareggiato e non trovavo le parole giuste, le stavo cercando, ma quali sono le parole giuste da dire ad un padre che ha appena perso tutta la sua famiglia? Non ci sono. Dopo qualche ora di cammino tornai alla base, stavo per affrontare il momento più triste e penoso della mia vita. Il Dott. Lorbe mi stava aspettando. Quando i nostri sguardi si incrociarono non servirono parole ma furono le lacrime a parlare per noi. Quelle lacrime ancora me le porto dentro, ogni tanto sogno quell’istante, e darei qualsiasi cosa per tornare indietro e salvare tutti!
Vi ho raccontanto questa storia che purtroppo non ha un lieto fine, come quasi tutte le storie dell’olocausto. Quando vedo le vecchie foto di quanto ero piccola, mi chiedo quante volte mio nonno abbia pensato a quella bambina, abbracciandomi. Era un giovane partigiano,deciso, sicuro di sè ma non era riuscito a fare ciò che realmente avrebbe voluto. Era una persona forte, non l’ho mai visto piagere, ma, quando raccontava questa storia, spesso non riusciva a finirla, i suoi occhi si inumidivano, il suo viso si faceva cupo ed occoreva una pausa per finire il racconto.
Ho condiviso con voi qualcosa di intimo, un racconto di famiglia che non smetterò mai di ricordare e di tramandare alle generazioni future, un racconto che spero vi possa lasciare un segno e vi lasci la voglia di continuare a credere che non bisogna dimenticare, che la storia non si deve ripetere, che il mondo deve essere più umano e che i nostri figli devono sapere, conoscere per non sbagliare di nuovo.
Lunedì torna il blog di sempre, con una nuova storia, io sono qui, una cacciatrice di storie non molla mai ma sono anche i lettori a rendere magico questo blog! Aspetto i vostri commenti.
8 Comments
Racconto molto toccante ….. per non dimenticare mai ! il sacrificio , inutile e inconcepibile di corpi e anime …..
Brava
Per non dimenticare….
Grazie Cinzia ,questo scritto di Via vissuta
e molto incisivo e porta a riflettere …
Ottimo lavoro.
grazie mi fa piacere!!
grazie Nadia!!
Brava Cinzia. Una “piccola storia” che fa parte della grande storia del nostro paese e di tutti i paesi quando si sono vissuti periodi devastanti per la coscienza umana. Ricordarli indispensabile sperando che servano per le nuove generazioni a non cadere più nella trappola che l’ uomo prepara a se stesso quando smarrisce il senso della convivenza e l’ignoranza, l’ egoismo e la paura del diverso gli fanno dimenticare il suo essere parte di un percorso che non ha certezze e non conosce verità che non siano quelle della fratellanza e dell’ uguaglianza, che non vi sono confini se non quelli che egli stesso costruisce e che prima o poi gli su ritorcono contro, facendo pagare sacrifici immani a chi cerca di vivere in pace e in sintonia con il tutto il cosmo, piante e animali compresi. Oggi la supponenza umana oltre alle guerre piccole e grandi in corso ha da tempo iniziato quella contro la natura, non vedendo anche qui che gli si sta ritorcendo contro. Purtroppo vi è qualcosa di sbagliato nell’ uomo per cui basta che venga a saltare il difficile equilibrio che lo fa essere consapevole del complesso in cui è immerso, perché degeneri nel mostro che cova dentro, per questo serve la memoria, sperando senza troppe illusioni che ritrovi la strada che per ritrovare una pace interiore in sintonia con la natura tutta. Questa credo sia oggi la vera lotta per salvare l’ uomo da se stesso.
Grazie Ettore. Le tue parole sono giuste e preziose in un momento come questo!
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Bravissima Cinzia!
Spero in una serata dal vivo in cui ascoltare questi racconti!